Elezioni USA e aiuti a Kyiv

Lunedì 20 gennaio 2025 all’interno del Congresso americano a Washington, anziché sulla iconica e consueta scalinata del West Front, (causa freddo, la prima volta in quarant’anni, l’ultimo precedente è quello di Ronald Reagan nel 1985) ha giurato come 47° presidente USA il rieletto Donald Trump – già 45° dal 2016 al 2020 -, il secondo (e primo repubblicano) nella storia presidenziale a stelle e strisce a ricoprire due mandati non consecutivi dopo il democratico Stephen Grover Cleveland, eletto la prima volta dal 1885 al 1889 e la seconda dal 1893 al 1897, ricoprendo il 22esimo e 24esimo mandato. Da ricordare difatti che il neopresidente era stato sconfitto nella tornata elettorale precedente – in piena pandemia Covid19 – da Joe Biden, ex vicepresidente durante la presidenza Obama.

Il tycoon newyorkese per tornare alla Casa Bianca ha conquistato 312 Grandi Elettori (era necessario superare la soglia dei 270) contro i 226 della sfidante democratica Kamala Harris, vice a sua volta di Joe Biden durante l’ultima presidenza e subentrata in corsa nel luglio 2024 per il ritiro dell’ex inquilino della stanza ovale dalla corsa presidenziale.

Tutto questo in un’America divisa in due (68 milioni hanno votato per Harris contro gli oltre 70 milioni del neoeletto) dove il Midwest ha giocato ancora una volta il ruolo dell’ago della bilancia. Il cosiddetto “Medio Occidente” è l’area maggiormente popolata nella nazione da parte degli statunitensi di origine germanica – da notare che lo stesso Donald Trump è di origine palatinato[1]-bavarese (vero cognome Trumpf) come il suo vice James David Vance (quest’ultimo è il cognome dei nonni materni, in origine era Bowman) originario della contea di Butler in Ohio, dove il 36% della popolazione è di origine tedesca[2]. Non è un caso difatti che l’apertura delle primarie storicamente spetti allo stato dell’Iowa, abitato per il 65% da cittadini di origine teutonica (44 milioni in tutti gli USA). Ragion per cui altri stati limitrofi quali Wisconsin, Illinois, Michigan, Ohio e Pennsylvania hanno sempre giocato (e giocano) un ruolo decisivo per chi vuole insediarsi nella White House, definiti i ‘Swing States’.

Per corroborare l’importanza elettorale della fascia statuale centrale è curioso segnalare che i congressi dei due partiti si siano svolti proprio nel Midwest (a Milwaukee, Winsonsin per i repubblicani e a Chicago, Illinois, per i democratici) e in seconda analisi che il vice di Kamala Harris, Tim Walz, fosse anch’egli discendente da parte di padre e madre di immigrati provenienti dal Baden-Württemberg (sud-ovest della Germania) e governatore del Minnesota, dove il 70% della popolazione ha origini tedesche o scandinave (come a dire per meglio parlare allo “zoccolo duro” degli Stati Uniti). Per dare un’idea della solida vittoria dell’ex presidente basti pensare che la sfidante Harris ha vinto in 15 Stati (California, Oregon, (Stato di) Washington, New Mexico, Colorado, Minnesota, Illinois, Virginia, New York, Massachusetts, Connecticut, New Jersey, Delaware, Maryland e District of Columbia, sede quest’ultima della Washington capitale), lasciandone all’imprenditore di Manhattan ben 35. Come si sa le coste, atlantica e pacifica, votano tradizionalmente democratico, mentre “l’America profonda” strizza ben più di un occhio al GOP (Grand Old Party), vale a dire al Partito Repubblicano, ora trumpiano.

Con queste premesse la nuova amministrazione trumpiana si trova ora ad affrontare uno dei nodi più difficili da risolvere da tre anni a questa parte a livello globale: la guerra in Ucraina.

Sono passati 3 anni (36 mesi e 1106 giorni) dall’inizio dell’invasione delle truppe di Putin e in questo lasso di tempo l’Occidente ha sostenuto in modo determinante il paese guidato dal presidente Volodymyr Zelens’kyj. L’aiuto del Western World si è sostanziato in questo triennio dal punto di vista militare (ovviamente), finanziario ed umanitario per garantire il funzionamento dello Stato, altrimenti a rischio collasso in breve tempo. Sino alla fine del 2024 il totale degli aiuti è ammontato a 360 miliardi di Euro (anche se in realtà una parte è stata solamente annunciata), di cui 114,2 miliardi di Euro da parte USA – con 4,8 miliardi ancora da distribuire -, mentre l’Europa (Unione Europea e singoli Paesi) ha stanziato 132,3 miliardi.[3]

Nel dettaglio come si è suddiviso il sostegno di Washington alla ex repubblica sovietica?

64,1 miliardi di euro in armi, 46,6 miliardi in aiuti finanziari e 3,3 in aiuti umanitari. Dall’altra parte dell’Atlantico, da Bruxelles sono stati versati 46,6 miliardi in supporto finanziario e 2,6 miliardi per quello umanitario (dove primeggia la Germania con 12,6 miliardi in armi, 3,2 miliardi umanitari e 1,4 miliardi finanziari). Da notare come gli aiuti complessivi siano iniziati a calare sia da parte degli Stati Uniti che dell’Europa dopo il primo trimestre del 2023 e siano passati rispettivamente da 12,7 e 15,1 miliardi a 0,4 e 10,1 miliardi alla fine del 2024.[4] La coda della presidenza Biden ha segnato il record nel sostegno (soprattutto finanziario) della Casa Bianca con 26,8 miliardi di euro (mentre tra l’ottobre 2023 e il marzo 2024 gli Stati Uniti hanno supportato Kyiv con 1,7 miliardi di euro).

Andando a riguardare l’andamento del conflitto si riporta che il picco di aiuto a stelle e strisce è avvenuto nel periodo luglio-settembre 2022 con 15,5 miliardi di euro coincidente con la resistenza all’urto iniziale dell’invasione e la controffensiva autunnale dell’esercito ucraino riuscito a riconquistare l’oblast di Kharkiv e la parte occidentale dell’oblast di Kherson respingendo le truppe russe oltre il fiume Dnepr. Dopo il primo trimestre del 2023 si è assistito però all’inversione di tendenza con la troppo annunciata controffensiva dell’esercito di Zelens’kyj verso sud che si è infranta prima ancora di cominciare permettendo all’esercito di Putin di riprendere l’iniziativa, anche se a un ritmo non più veloce come nelle prime settimane del marzo 2022.

Il 2023 ha difatti trasformato l’invasione in una guerra di attrito e logoramento con un sostanziale stallo con la bilancia pendente più dalla parte di Mosca per due ordini di motivi: il primo per la quantità di risorse umane a disposizione che evidentemente arride all’inquilino del Cremlino, il secondo per il progressivo sempre più ritardato invio da parte dell’amministrazione Biden e i suoi partner europei di armamenti fondamentali per l’Ucraina quali i caccia F-16 (per i quali in realtà era necessaria una lunga fase di addestramento dei piloti ucraini oltreché a motivi di logistica), i sistemi a lunga gittata americani ATACMS e i franco-britannici SCALP-Storm Shadow.

Il 2024 difatti ha segnato un più veloce dilagare delle truppe putiniane nella parte occidentale dell’oblast del Donetsk (a partire dalla conquista di Avdiivka nel mese di febbraio) fino alle porte della importante città logistica di Pokrovsk, in parte agevolato (forse) dall’azzardo, comunque ancora in corso, delle truppe ucraine nell’oblast russo del Kursk avviato il 6 agosto 2024, il che – secondo alcuni analisti – potrebbe aver in parte indebolito il fronte orientale di resistenza nel Donbass. La presidenza Biden si è sempre mantenuta abbastanza cauta sul cercare di cambiare le sorti del conflitto, testimonianza ne sono il tardivo via libera all’utilizzo dei citati ATACMS in territorio russo (avvenuto nel novembre 2024 ad elezione di Donald Trump già avvenuta) e la fornitura insufficiente di caccia F-16, per timore di scatenare un’escalation con un’altra superpotenza nucleare.

Come potrebbe cambiare lo scenario ora con il presidente Trump?

Il rieletto presidente non ha perso tempo in questo suo primo mese dopo il suo secondo insediamento, avendo inviato in Arabia Saudita lo scorso 18 febbraio una propria delegazione, capeggiata dal segretario di stato Marco Rubio, incaricata di tenere i primi colloqui di “disgelo” con la delegazione russa, con in testa il ministro degli esteri Lavrov inviata dal Cremlino. Questo primo incontro ovviamente non ha fatto altro che agitare gli alleati europei e il presidente ucraino, convinti che un percorso di pace non possa sfociare in nulla di concreto senza la partecipazione attiva di Kyiv e della UE. È evidente che ora ci troviamo in un contesto completamente diverso da quello sostenuto sino al novembre 2024 da Joe Biden.

Gli USA – come noto negli ambienti internazionali – hanno tutto l’interesse a cercare di spezzare l’apparente patto di ferro tra Russia e Cina cercando di riavvicinare l’Orso alla sfera occidentale per non farlo cadere totalmente nelle fauci del Dragone. Su queste premesse si può cercare di interpretare il recente ammorbidimento della White House nei confronti di Mosca, estrinsecatosi in modo plateale nella recente Assemblea Generale delle Nazioni Unite di New York dove gli americani non hanno voluto più utilizzare la parola “aggressore” per descrivere la Russia, ottenendo ovviamente il plauso di Vladimir Putin. Appare alquanto evidente, da un punto di vista puramente teleologico senza quindi giustificarlo nel merito, che nella diplomazia l’atteggiamento di non voler epitetare il proprio interlocutore come “aggressore” può certamente agevolare il percorso di un nascente negoziato. Ed è quello che in questa fase stanno facendo gli Stati Uniti.

Tradotto: io Washington so benissimo che la Russia ha invaso la parte orientale dell’Ucraina, ma se voglio far cessare le ostilità e far sedere tutti al tavolo non posso rivolgermi a Mosca con gli stessi termini degli ultimi tre anni, devo cambiare lessico. Questa per lo meno è la condotta tenuta sin qui da Trump in questa prima fase, ben diversa sarà la questione quando farà delle richieste ben precise al Cremlino. Per quanto riguarda il rapporto con Zelens’kyj quest’ultimo sembra più un ottovolante dove si alternano dichiarazioni di stima a stoccate velenose, che in precedenza ruotavano intorno al famigerato accordo sulle terre rare che era in procinto di essere firmato tra USA e Ucraina. Accordo clamorosamente saltato lo scorso 28 febbraio in mondo visione a causa del litigio avvenuto nello Studio Ovale tra il presidente USA e il suo omologo ucraino.

D’altronde la narrativa bellica americana parla chiaro: gli yankee cercano di muoversi nel mondo quando hanno dei “buoni motivi”. Non è un mistero difatti che il ritiro delle truppe a stelle e strisce da Kabul del 2021 venne organizzato dalla prima amministrazione Trump (poi disastrosamente avvenuto con Biden) proprio perché lo zio Sam non ha più intenzione di presidiare ogni angolo terrestre, insomma di fare lo sceriffo del globo come dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia, nonostante la cacciata di Zelens’kyj dalla Casa Bianca, io non credo che Trump abbandonerà l’Ucraina, anzi.

Le terre rare di cui sopra potrebbero essere il buon motivo che spingeranno i cugini d’Oltreoceano a non disinteressarsi troppo del dossier Kyiv, delegando in parte la gestione del dopoguerra a delle non ancora ben precisate forze di peacekeeping che presidino la parte dell’Ucraina non conquistata dall’esercito russo. Truppe che Francia e Regno Unito si sono già impegnate ad inviare dopo le recenti visite dei rispettivi presidente e primo ministro, Macron e Starmer, all’inquilino della Casa Bianca.

Donald Trump come sempre è una plateale e ruvida “Sibilla”, ma il cui disegno sta per essere svelato. Il primo round negoziale è appena iniziato. La Casa Bianca starà con Kyiv, ma alle condizioni di Trump. Ma anche Mosca starà alle condizioni di Washington, prova ne è il desiderio del Cremlino di organizzare un incontro tra i presidenti delle due superpotenze “il prima possibile” (13 febbraio 2025). La UE entrerà in una seconda fase, salvo un cambio di scenario radicale laddove gli Stati del Vecchio Continente decidano di caricarsi sulle spalle Kyiv. Dopo lo ‘strappo’ del 28 febbraio il quadro è tutto in itinere.

Non resta che attendere l’incontro tra Trump e Putin.

Enrico Andreoli

5 marzo 2025


[1] Palatinato (in tedesco Rheinpfalz). Regione storica della Germania sud-occidentale.

[2] DARIO FABBRI, DOMINO n.11 novembre 2024, Fa’ la cosa giusta, p.12.

[3] Dati dell’Ukraine Support Tracker dell’Istituto per l’economia mondiale di Kiel, Germania.

[4] STEFANO GRAZIOLI, Ecco gli aiuti (finanziari e militari) sinora forniti all’Ucraina, www.rsi.ch, 14/02/25.

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